Come lo stress riduce la flessibilità affettiva

 

 

DIANE RICHMOND

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XV – 07 ottobre 2017.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

Notevoli progressi sono stati compiuti nella conoscenza delle basi biologiche dello stress e dei disturbi che ne derivano, individuando precisi meccanismi implicati nel danno da glucocorticoidi, prodotti dall’attività eccessiva dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, chiarendo numerosi aspetti della neurochimica dei sistemi serotoninergico, noradrenergico, GABAergico e peptidergico, e riconoscendo la fisiopatologia dei circuiti che includono l’amigdala e il locus coeruleus. È stata raccolta una notevole mole di dati, alla quale continuano ad aggiungersene di nuovi, la cui sistematizzazione non solleva più i problemi dovuti al difetto di nozioni del passato. Tuttavia, le basi del livello psichico dei processi sono ancora scarsamente esplorate. Ad esempio: perché si può soffrire in maniera diversa per lo stesso tipo di stress e in cosa consiste la neurofisiopatologia di questa differenza? Perché circostanze ed eventi neutri, fra loro diversi, diventano causa di una sofferenza sempre uguale, con gli stessi correlati neurovegetativi? Perché la cronica risposta allo stress in una persona induce modificazioni dello stile di personalità e del profilo affettivo ed emotivo?

A queste e a tante altre domande di tale genere non si ha ancora una risposta scientifica e, in generale, ci si accontenta di una ragionevole interpretazione psicologica che implica il livello neurofunzionale quale fosse sempre e solo una conseguenza dell’interazione fra gli eventi dell’esperienza e una imprecisata predisposizione individuale. Una branca della ricerca, nota come translational affective science, basandosi su nozioni e concetti consolidati in psicologia, ma letti alla luce delle nuove prospettive sulle basi neurobiologiche dell’attività psichica, comincia a far luce su un possibile livello intermedio di interpretazione e conoscenza.

Uno scopo primario della translational affective science consiste nell’ottenere una comprensione più “meccanicistica” di come lo stress rende gli individui vulnerabili a risposte di maladattamento alle minacce che portano a psicopatologia affettiva. Elizabeth Phelps, Candace Raio e colleghi hanno analizzato il modo in cui l’esposizione allo stress acuto influenza la modulazione flessibile della risposta a condizioni e stimoli percepiti come minacce. A tale scopo hanno adoperato l’apprendimento inverso, che rappresenta un saggio canonico di flessibilità comportamentale. È emerso che l’esposizione allo stress causava marcati difetti nell’adeguamento delle risposte affettive a fonti varianti di minaccia, e che questo deficit derivava da un fallimento della regolazione dei livelli di apprendimento adatti a riflettere accuratamente i nuovi patterns di rinforzo avversi.

 (Raio C. M., et al. Stress attenuates the flexible updating of aversive value. Proceedings of the National Academy of Sciences USA - Epub ahead of print doi:10.1073/pnas.1702565114, 2017).

La provenienza degli autori è la seguente: Center for Neural Science, Department of Psychology, New York University, New York (USA); Neuroscience Department, Icahn School of Medicine at Mount Sinai Hospital, New York (USA); School of Psychological and Cognitive Sciences, McGovern Institute for Brain Research, Peking University, Beijing (Cina).

La maggior parte delle nozioni di base sui sostrati neurali della reazione immediata ad una minaccia per l’integrità (paura) o degli stati fisiopatologici a questa assimilati (ansia) deriva dagli studi pionieristici condotti su gatti e roditori da Walter Cannon, Hans Selye ed altri ricercatori nella prima metà del Novecento. I progressi compiuti nelle tecniche di osservazione e nel bagaglio di conoscenze delle principali discipline neuroscientifiche hanno consentito di approfondire notevolmente l’anatomia, la neurochimica e la neurofisiologia di queste reazioni. Soprattutto, lo sviluppo delle nuove metodiche di neuroimmagine ha consentito il riscontro e la conferma nella nostra specie delle principali acquisizioni derivate dagli studi su animali. Una sintesi, sia pur estrema di quanto si conosce in questo campo, esulerebbe dalle dimensioni e dalla finalità di questo scritto, perciò ci limitiamo a ricordare solo qualche elemento ben definito e ancora di attualità.

Il locus coeruleus (LC), il maggior aggregato di neuroni noradrenergici dell’encefalo dei mammiferi, sembra avere vari ruoli nella fisiologia della regolazione dei sistemi implicata nella genesi dell’ansia. Ad esempio, i suoi efferenti noradrenergici risultano essenziali per la regolazione della risposta simpatica periferica; la sua attivazione è necessaria per la reazione fisiologica a stimoli ansiogeni; il suo intervento contribuisce a dirigere l’attenzione verso stimoli salienti potenzialmente minacciosi; la sua attivazione, in un corto-circuito con l’amigdala, sembra costituire uno dei principali meccanismi che mantiene la risposta ansiosa attivando il circuito della paura in assenza di una minaccia esterna attuale. Nelle condizioni di stati d’ansia elevata sembra sia necessario, all’interno del nucleo LC, il rilascio di CRH.

L’amigdala, la struttura cerebrale più studiata per la sua fondamentale partecipazione ai processi neurobiologici alla base della paura e dell’ansia, se stimolata elettricamente genera negli animali risposte fisiologiche e comportamentali assimilabili allo stato di fuga della fight or flight reaction e nella nostra specie accresce l’esperienza che va dal timore al terrore. La stimolazione dell’amigdala porta al rilascio di corticosterone negli animali (cortisolo nell’uomo) e attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, attraverso assoni diretti all’ipotalamo e al nucleo del letto della stria terminale. Inoltre, ha ruoli definiti oltre che nella reazione agli stimoli stressanti, anche nell’apprendimento di risposte a stimoli minacciosi per l’integrità dell’organismo, come hanno bene chiarito gli studi di Joseph LeDoux e colleghi. È stato suggerito che l’amigdala possa rappresentare una sorta d’interruttore principale della paura, grazie alle sue connessioni con le aree effettrici.

Gli agenti farmacologici in grado di provocare lo sviluppo di sintomi ansiosi nelle persone predisposte hanno consentito di comprendere due principali ordini di meccanismi: il primo è costituito dalla ridotta disponibilità di ossigeno, il secondo dall’azione diretta sui sistemi di neurotrasmissione. Gli studi realizzati con l’impiego tali molecole hanno consentito di ottenere numerosi dati nuovi e nozioni utili alla comprensione della neurobiologia dei disturbi d’ansia; tuttavia, in base alle nuove acquisizioni non è stato possibile individuare un singolo sistema neuronico o una particolare via di connessione, quale principale responsabile della genesi dello squilibrio funzionale che produce la sensazione soggettiva di sofferenza psichica. È stato invece possibile riconoscere azioni comuni per CO2, sodio lattato e bicarbonato, che agiscono perifericamente determinando aumento della frequenza cardiaca, del ritmo respiratorio e di altri parametri funzionali dell’ortosimpatico. Gli esiti di questi studi hanno supportato l’ipotesi secondo cui i pazienti con disturbi d’ansia possono interpretare questi sintomi mediati dal massiccio scarico periferico di noradrenalina dalle giunzioni ortosimpatiche, come indici preoccupanti di malattia e di rischio cardiovascolare, attivando ulteriormente i sistemi dello stress, in un circolo vizioso responsabile delle manifestazioni acute più gravi e del consolidamento caratterizzante i disturbi cronici.

Ritorniamo ora all’argomento specifico del lavoro condotto da Candace Raio e colleghi con la guida di Elizabeth Phelps.

In un ambiente dinamico, le fonti di minaccia per la sicurezza o l’integrità di un organismo possono variare in modo inatteso, richiedendo un aggiornamento flessibile dell’associazione stimolo-risposta che promuove l’adattamento comportamentale. In ogni caso, i contesti avversi in cui bisogna rivedere le previsioni circa gli eventi temuti, sono spesso contraddistinti da stress. La condizione acuta di stress si ritiene che riduca la flessibilità comportamentale, ma la sua esatta influenza sulla modulazione del valore repulsivo di un’esperienza non è stata ancora caratterizzata.

Poiché l’esposizione ad agenti o eventi stressanti è un riconosciuto fattore di rischio per lo sviluppo di ansia e disturbi psicopatologici da trauma, caratterizzati da persistenti e non modulate risposte allo stress, gli autori dello studio qui recensito hanno esaminato il modo in cui lo stress acuto compromette l’aggiornamento flessibile delle risposte alle minacce. A questo scopo, hanno sottoposto i volontari partecipanti alla sperimentazione ad un compito di apprendimento repulsivo, in cui uno stimolo era probabilisticamente associato ad uno shock elettrico, mentre un altro stimolo era segnalato come innocuo. Dopo un giorno, i partecipanti sono stati sottoposti ad uno stress acuto o a una manipolazione di controllo prima di completare un compito di apprendimento inverso, durante il quale le contingenze dello stimolo-esito erano invertite. La conduttanza cutanea e le risposte neuroendocrine hanno fornito, rispettivamente, indici di attivazione simpatica e di risposte allo stress.

Nonostante un apprendimento iniziale equivalente, i partecipanti stressati mostravano, rispetto ai controlli, marcati difetti nell’apprendimento inverso. Si è anche rilevato che tali difetti erano associati a livelli accresciuti di alfa-amilasi, un marker di attività nor-adrenergica. Il confronto dei dati dell’attivazione (arousal) dei sistemi mediatori periferici dello stress con un modello computerizzato di apprendimento di rinforzo, ha rivelato che i deficit di apprendimento inverso indotti dallo stress emergevano da cambiamenti stress-specifici nel peso assegnato ai segnali di previsione dell’errore, compromettendo gli aggiustamenti adattativi dei livelli di apprendimento.

Questi risultati, nel loro insieme, forniscono elementi di conoscenza circa il modo in cui lo stress rende le persone meno sensibili ai cambiamenti nel rinforzo, ed hanno implicazioni nella comprensione della psicopatologia correlata allo stress.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Giovanna Rezzoni per la collaborazione e la revisione della bozza, e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Diane Richmond

BM&L-07 ottobre 2017

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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